di Marco Ferrando - fonte : http://trotskysmo.blogspot.it/
“Gli avvenimenti cileni sono stati e sono vissuti come un dramma da milioni d’uomini sparsi in tutti i continenti… ma i combattenti per la causa della libertà e del socialismo non reagiscono con lo scoramento ma cercano di trarre un ammaestramento…
“Gli avvenimenti cileni sono stati e sono vissuti come un dramma da milioni d’uomini sparsi in tutti i continenti… ma i combattenti per la causa della libertà e del socialismo non reagiscono con lo scoramento ma cercano di trarre un ammaestramento…
“Noi abbiamo
sempre pensato – e oggi l’esperienza cilena ci rafforza in questa persuasione –
che l’unità dei partiti dei lavoratori e delle forze di sinistra non è
condizione sufficiente per garantire la difesa e il progresso della democrazia…
Ecco perché noi parliamo non di un’alternativa di sinistra ma di un’alternativa
democratica, e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di
un’intesa delle forze popolari d’ispirazione comunista e socialista con le forze
popolari d’ispirazione cattolica…
“L’errore principale da cui
bisogna guardarsi è quello di giudicare la DC come una categoria astorica,
destinata per sua natura ad essere o a divenire sempre e ovunque un partito
schierato con la reazione… Noi abbiamo avuto sempre ben presente il legame tra
la DC e i gruppi dominanti della borghesia… Ma nella DC si raccolgono anche
altre forze, vaste categorie di ceto medio, strati popolari e anche operai.
Dobbiamo agire perché al suo interno pesino sempre più, sino a prevalere, le
tendenze che con realismo storico e politico riconoscono la necessità e la
maturità di un dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari,
senza che essa significhi rinuncia alle diversità e distinzioni ideali e
politiche…
“Non
bisogna credere che il tempo a disposizione sia indefinito. La gravità dei
problemi del paese, le minacce sempre incombenti di forze reazionarie, la
necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo
economico, di rinnovamento sociale e democratico, rendono sempre più urgente che
si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico”
tra le forze che rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.”
(“Rinascita” del 9 ottobre 1973). Con queste parole Enrico Berlinguer,
segretario generale del Pci, lanciava, trent’anni fa, la proposta politica del
“compromesso storico”.
Un dibattito distorto
Su
questa proposta si è sviluppata nel tempo, all’interno del movimento operaio,
una discussione vasta ma raramente segnata dall’onestà intellettuale (e quasi
mai dal metodo marxista).
Quali
erano le ragioni e i fini della proposta? Quale bilancio storico trarre
dall’esperienza concreta dell’unità nazionale (1976-78) cui quella proposta
apriva la strada? Le risposte a questi interrogativi che si sono confrontate
nella sinistra italiana hanno spesso registrato, al di là delle divergenze, un
comune schema d’approccio: e cioè una rappresentazione del compromesso storico
come astratta proposta politica ideale, come una particolare concezione della
“transizione”, di cui magari leggere criticamente radici culturali e risultanze
politiche, ma tutta mossa in definitiva dalla tensione morale verso un’altra
Italia e realmente ispirata dal dramma del Cile.
Questo
approccio “metafisico” al compromesso storico ha resistito tanto tenacemente nel
tempo da unire, su versanti capovolti, l’interpretazione che ne diedero
all’epoca i dirigenti storici del Pci con l’interpretazione che oggi ne danno i
loro epigoni neoliberali. Cos’era il compromesso storico, nella rappresentazione
ideologica interna che ne diedero Berlinguer e i suoi giovani tenenti degli anni
settanta (Occhetto, D’Alema, Fassino, Veltroni)? Era la concretizzazione
strategica della “via italiana al socialismo” e quindi “la corretta traduzione,
nelle condizioni nazionali, di una linea di classe”. Cos’è il compromesso
storico in sede di bilancio nella rappresentazione storiografica che oggi ne
fanno i neoliberali Occhetto, D’Alema, Fassino e Veltroni? La concretizzazione
strategica della via italiana al socialismo e, quindi, l’espressione di un
classismo nobile ma miope, di un rifiuto generoso ma utopico della modernità, di
un incolmabile ritardo storico che – unito al berlinguerismo degli anni ottanta
– avrebbe condannato il Pci al declino.
La
verità è che i dirigenti liberali della maggioranza diessina avvalorano le
mistificazioni della propria gioventù staliniana per lustrare presso le classi
dominanti il proprio attuale liberalismo borghese ed esaltare l’entità dello
“strappo” compiuto. Di converso tanti reduci della storia del Pci, ancora legati
al movimento operaio, proprio per contrastare il liberalismo DS e il suo cinismo
sono portati a rivendicare l’effige di Berlinguer, a denunciare il tradimento
della sua figura, a nobilitare lo stesso compromesso storico, rappresentandolo
al più come “un errore”.
La
risultante di questa dinamica di confronto non è solo il riprodursi, per
autoalimentazione, di una mistificazione storica ma, perciò stesso, un danno
politico per il movimento operaio di oggi, per la comprensione delle sue
necessità e dei suoi compiti. Per questo è utile sottrarre al compromesso
storico l’aureola della leggenda e restituirlo alla sua effettiva realtà.
La mistificazione ideologica
della “via italiana al socialismo”
La
proposta del compromesso storico, nella sua sostanza politica non nasce dal
dramma del Cile: nasce dalla tradizione storica dello stalinismo, ed è sospinta
politicamente dall’intera evoluzione della situazione politica italiana dei
primi anni settanta. Il golpe fascista in Cile fu piuttosto occasione e
cornice della sua nuova esplicitazione e rilancio.
Innanzi
tutto il compromesso di governo con la DC non era un’improvvisazione di Enrico
Berlinguer. Era un’esperienza già compiuta dal Pci di Palmiro Togliatti
nell’immediato secondo dopoguerra (1945-1947) e un’ispirazione strategica di
fondo della burocrazia del Pci lungo il corso tormentato dei decenni successivi.
Lo stesso Berlinguer rivendicò apertamente nello scritto di “Rinascita” la
radice antica del compromesso storico, il suo segno di continuità col passato:
“Il nostro partito non ha mai deflettuto dalla sua linea unitaria verso gli
altri partiti di massa, il Partito socialista, il Partito democristiano… Dopo la
Liberazione, dopo l’avvento della Costituzione, frutto di un accordo tra i
grandi partiti di massa (Pci, Psi, DC) fu il partito democristiano – nel clima
di divisione dell’Europa e nel mondo creato dall’incipiente guerra fredda – il
principale artefice della rottura dell’alleanza di governo con i comunisti…”
(9 ottobre 1973).
Parole
di verità: ma che nascondono dietro un riferimento storico notarile ragioni e
bilancio della “linea unitaria” verso la DC.
Dopo la
svolta del settimo congresso dell’Internazionale comunista (1935), con la nuova
linea dei “fronti popolari”, i partiti del Comintern si erano votati ad una
prospettiva di governo con la propria borghesia “democratica e liberale”,
secondo gli interessi di fondo della burocrazia sovietica e della sua diplomazia
internazionale, nel nome del “socialismo in un solo paese”. Così fu in Italia.
Nel
1926 il congresso di Lione del PcdI, sotto la direzione di Gramsci, aveva
finalizzato l’opposizione comunista al fascismo alla prospettiva strategica del
“governo operaio e contadino”: l’unica prospettiva capace di realizzare
l’avvento di un nuovo blocco storico alla testa dell’Italia e di condurre a
soluzione le questioni storiche irrisolte, a partire dalla questione
meridionale. “Non può esservi altra rivoluzione in Italia che una rivoluzione
socialista” scriveva Antonio Gramsci. Ogni ipotesi di blocco di governo con
forze borghesi liberali, ogni concezione del PcdI come “ala sinistra”
dell’opposizione unitaria antifascista, veniva esplicitamente respinta come
capitolazione alla socialdemocrazia e al liberalismo (vedi Tesi di Lione
n. 26).
Ciò non
significava affatto escludere, in termini di previsione storica, la possibilità
che un futuro crollo del fascismo potesse aprire le porte, nell’immediato, ad
una soluzione democratico-borghese. Ma quella soluzione avrebbe avuto
precisamente lo scopo di bloccare la rivoluzione proletaria. E i comunisti
pertanto, non solo non dovevano subordinarsi a tale prospettiva, ma dovevano
battersi, con tutte le proprie forze, per costruire l’egemonia proletaria
sull’opposizione di massa antifascista, in alternativa al liberalismo e nel nome
della propria prospettiva indipendente. Solo a partire da questa politica di
classe, un’eventuale soluzione democratico liberale, se anche si fosse
realizzata, avrebbe potuto costituire obiettivamente un breve passaggio
intermedio sulla via della conquista proletaria del potere.
Lo
stalinismo italiano, sotto la guida di Togliatti, capovolse esattamente questa
impostazione. L’intera linea del Pci durante la resistenza si ispirò al blocco
strategico con la borghesia liberale italiana. La ribellione operaia
antifascista, a partire dal marzo 1943, e il grosso del movimento partigiano
furono subordinati nei Cln all’alleanza “paritaria” con la DC e il Partito
liberale. La nuova prospettiva strategica fu esplicitata solennemente nella
cosiddetta svolta di Salerno: “lo scopo del nostro partito non è oggi la
rivoluzione socialista ma la ricostruzione democratica dell’Italia”
(Togliatti). Dentro la cornice di quella divisione del mondo in aree di
influenza che Stalin avrebbe pattuito con gli imperialismi vincitori.
Su
queste basi “tricolori”, il “partito nuovo” di Togliatti prese parte ai governi
di “unità nazionale” con la DC che si susseguirono dal 1945 al 1947. I ministri
staliniani, a braccetto con la DC, reintrodussero i capitalisti cacciati dai
lavoratori nei loro posti di comando, ripristinarono la disciplina nelle
fabbriche, concordarono la liberalizzazione dei licenziamenti, gestirono il
disarmo del movimento partigiano, decretarono un’ampia amnistia per i fascisti,
diressero la repressione di movimenti di disoccupati. Era il programma della
ricostruzione del capitalismo italiano e dell’apparato borghese dello Stato,
usciti a pezzi dell’avventura del fascismo e della guerra. Solo il Pci forte del
proprio controllo sulle masse, poteva garantire alla borghesia italiana il
ritorno indolore alla sua democrazia: contro il movimento operaio e le
aspirazione più profonde della resistenza. Ma la borghesia “democratica” rimessa
in sella dallo stalinismo non mostrò gratitudine verso il Pci: non appena i
rapporti di forza lo consentirono e la svolta internazionale della guerra fredda
lo suggerì, la Democrazia cristiana di De Gasperi cacciò il Pci all’opposizione
e inaugurò la lunga stagione anticomunista che percorse tutti gli anni cinquanta
contro i lavoratori e la Cgil.
Significativa fu la protesta di
Palmiro Togliatti, dalla tribuna dell’assemblea costituente. Per questa
imprevista estromissione dal governo: “Cosa si rimprovera alla classe
operaia?… Gli operai, avvenuta la liberazione, hanno compreso la situazione,
dando prova di un mirabile senso politico e nazionale. Essi hanno capito che
l’aver salvato le fabbriche non li autorizzava a porre il problema di
un’immediata trasformazione socialista della società… Sappiamo bene che per la
ricostruzione nazionale sono necessari i ceti produttori capitalistici e
infinite volte abbiamo detto loro “collaboriamo”… Ma gli operai hanno fatto di
più: hanno moderato il loro movimento, l’hanno frenato, l’hanno contenuto nei
limiti in cui era necessario contenerlo per non turbare l’opera della
ricostruzione. Hanno accettato la tregua salariale senza che vi fosse la
sospensione dell’aumento dei prezzi… hanno dimostrato capacità di direzione
politica ed economica della vita del paese. Nulla si può rimproverare agli
operai e i partiti che li rappresentano non possono essere oggetto della manovra
(d’esclusione dal governo).” (20 giugno 1947). Non poteva esservi
confessione più autorevole e penosa del tradimento della classe operaia e della
Resistenza da parte della burocrazia del Pci. Né poteva esservi un’invocazione
tanto pietosa della riammissione del Pci nel governo della borghesia.
Nei
successivi trent’anni di opposizione, tutta la politica dell’apparato del Pci fu
finalizzata a riaprire il varco di quella collaborazione di governo con la DC,
che quest’ultima aveva affossato nel 1947. La cosiddetta “via italiana al
socialismo” fu per trent’anni l’involucro ideologico di questa prospettiva. Non
una ingenua illusione, ma una consapevole mistificazione.
Dal primo al secondo compromesso
storico
Trent’anni dopo il compromesso
storico si ripresentò in condizioni storiche molto diverse. Ma la dinamica della
sua realizzazione presenta anche alcune significative analogie.
Nell’immediato secondo dopoguerra il
Pci era approdato al governo non solo in ragione dell’aspirazione governista
della sua burocrazia, ma in virtù del combinarsi di due fattori di fondo:
l’ascesa della classe operaia, nei termini allora di una dinamica
insurrezionale, e la crisi profonda della direzione politica borghese, entro un
processo di disgregazione dell’apparato statale. Solo in queste condizioni
eccezionali il capitalismo italiano fu costretto ad appoggiarsi su un partito
staliniano per organizzare la propria rinascita. E solo in queste condizioni un
apparato staliniano poteva realizzare quel compromesso di governo che il
Cremlino gli aveva commissionato.
Il
secondo compromesso storico promosso nel 1973 da Berlinguer vedeva un Pci
sensibilmente diverso da quello degli anni quaranta. Il suo apparato burocratico
aveva approfondito la propria integrazione nella società borghese. Le sue radici
materiali nelle istituzione dello Stato, nelle amministrazioni locali, nel
sistema cooperativo si erano enormemente estese. I suoi canali di comunicazione
con le classi dominanti si erano moltiplicati. Sotto molti aspetti la base
materiale della burocrazia Pci era divenuta assai simile alla base materiale di
una socialdemocrazia classica. E ciò dava, di riflesso, un diverso fondamento
alla sua stessa aspirazione di governo: nel 1945 la vocazione di governo di un
apparato staliniano uscito dalla clandestinità dopo vent’anni di fascismo
rifletteva prevalentemente gli interessi di Mosca e della sua burocrazia; alla
soglia degli anni settanta la vocazione di governo dell’apparato del Pci, dopo
trent’anni di democrazia borghese, rifletteva gli appetiti della propria
burocrazia: del suo ceto dirigente, dei suoi amministratori, del suo ceto
parlamentare.
E
tuttavia il Pci di Berlinguer conservava nonostante tutto un tratto strutturale
che lo differenziava da un ordinario partito socialista: il perdurante legame
col Cremino. Certo, questo legame si era allentato nel tempo entro un processo
di graduale autonomizzazione che rifletteva l’integrazione del Pci nella
società borghese (la dissociazione del Pci dall’invasione della Cecoslovacchia
nel 1968, a differenza del sostegno fornito nel 1956 alla repressione degli
operai ungheresi misurava questa evoluzione). Ma per quanto indiretto il legame
con l’Urss permaneva ben saldo: e non solo come eredità residuale e simbolica di
una tradizione passata ma come legame materiale (anche finanziario) e come
rapporto politico diplomatico legato a una geografia bipolare del mondo, figlia
indiretta della rivoluzione d’Ottobre, che era ancora lontana dal dissolversi.
Questa
peculiare diversità del Pci era, agli occhi della borghesia, il principale
ostacolo alla sua integrazione di governo: non le sue radici di massa, tanto
meno i suoi programmi riformisti, entrambi affini a quelli di altri partiti
socialisti in Occidente; ma le specifiche relazioni del Pci con l’altro blocco
internazionale, con i suoi interessi diplomatici, con la sua potenza statuale.
Il “Corriere della sera” in un celebre editoriale del 1975 lo chiamò il “fattore
K” (K come Kremlino) e lo additò come un impedimento organico all’ingresso al
governo del Pci.
Berlinguer era ben consapevole
dell’ordine dei problemi e degli ostacoli, anche internazionali che si
frapponevano all’accoglimento di un nuovo compromesso storico. Ma coglieva
perfettamente che altri fattori, non meno potenti, aprivano al Pci una
potenzialità nuova. Questi fattori, tra loro combinati, erano essenzialmente
due: la nuova ascesa della classe operaia e la nuova crisi di direzione politica
della borghesia. In forme e con intensità profondamente diverse erano non a caso
gli stessi fattori che avevano sospinto il primo compromesso storico del
dopoguerra.
Ascesa operaia e avanzata del
Pci: una relazione contraddittoria
La
ripresa della classe operaia, dopo una fase di dure sconfitte aveva segnato,
seppur in modo non lineare, il corso degli anni sessanta. La rivolta di massa
contro il governo Tambroni nel luglio 1960 fu il primo segnale del disgelo. Una
nuova generazione faceva progressivamente il proprio ingresso nelle lotte
sindacali e politiche. La crescita quantitativa e la concentrazione di massa
della classe operaia industriale – prodotta dallo sviluppo capitalistico del
dopoguerra – dava a questa lenta ripresa una robusta base materiale
d’appoggio. L’autunno caldo del ’69 fu il punto d’approdo di questo processo e
al tempo stesso la leva e il motore di una svolta profonda nei rapporti di forza
tra le classi in Italia. Le vecchie politiche sindacali, a lungo difese dal Pci
(dalla conservazione di commissioni interne sclerotizzate al moderatismo
salariale) furono nei fatti travolte dalla pressione operaia. Gli aumenti
salariali uguali per tutti, l’unità tra operai e impiegati, il potere di
contrattazione in fabbrica, nuove forme di rappresentanza democratica dei
lavoratori si affermarono come rivendicazioni egemoni a livello di massa. La
nascita dei consigli di fabbrica dava la misura della nuova forza operaia e
delle potenzialità della svolta. Una svolta che non si fermava ai cancelli
della fabbrica, ma investiva profondamente la società italiana: si intrecciava
con l’ascesa della mobilitazione studentesca; spostava gli orientamenti di vasti
settori di piccola borghesia, di masse popolari del sud, di forze intellettuali;
trascinava una nuova sensibilità democratica e una potente domanda di
cambiamento.
L’apparato del Pci lavorò a
contenere questa spinta: da un lato cavalcandola, dall’altro smussandone tutte
le potenzialità anticapitalistiche. Il cavalcamento dei nuovi consigli di
fabbrica e la loro successiva subordinazione “istituzionale” al nuovo patto
interconfederale del 1972 furono al riguardo emblematici; non meno – su un
altro piano – della linea di attacco frontale e di “clima rovente” (Cossutta
1972) nei confronti della neonata “sinistra extraparlamentare”. Peraltro tutta
la credibilità del Pci agli occhi della borghesia era affidata alla sua
capacità di contenere l’ascesa di massa dentro gli argini della società
borghese.
Ma il
Pci sarà anche il beneficiario politico, alla lunga, della nuova stagione
sociale. Nel 1974-75 il riflesso politico di anni di lotte di massa si espresse
nella clamorosa vittoria sul tema del divorzio, nella grandezza e radicalità
delle mobilitazioni antifasciste, ma soprattutto nell’ascesa elettorale
impetuosa del Pci; che nelle elezioni amministrative del 15 giugno 1975
conquistava le grandi città del nord e del sud rompendo i confini tradizionali
del proprio insediamento storico e incamerando ovunque nuove forze e nuove
domande.
L’apparato del Pci dirà a lungo, per
tacitare il dissenso interno, che questa avanzata del partito esprimeva un
consenso di massa alla linea del compromesso storico. Era falso. Le masse non
votano linee politiche, esprimono bisogni e domande attraverso i canali di cui
dispongono. L’avanzata del Pci nel 1975 esprimeva una gigantesca domanda di
svolta dopo trent’anni di dominio democristiano: una domanda che si incanalava,
come era naturale, verso quella forza di opposizione che per consistenza,
insediamento, tradizione appariva agli occhi della masse come l’unico possibile
strumento della svolta.
Il
paradosso storico – ricorrente nella relazione dinamica tra lotta di classe e
direzioni riformiste – è che proprio la linea di compromesso storico con la DC
che confliggeva con la domanda di svolta, uscì rafforzata dall’ascesa di massa:
accrescendo enormemente il peso negoziale dell’apparato staliniano nei confronti
della borghesia e della DC.
La crisi economica e politica del
capitalismo italiano
Congiuntamente all’ascesa operaia e
al rafforzamento del Pci, si manifestava una crisi profonda delle classi
dominanti. Con la crisi economica internazionale del 1974-75 e i suoi pesanti
riflessi in Italia, la lunga fase del boom post-bellico, già da tempo in
progressivo esaurimento, poteva dirsi definitivamente conclusa. Nel capitalismo
italiano si apriva una fase nuova. Una serie di distorsioni strutturali legate
ai caratteri della DC e del suo blocco di potere iniziavano a rivelarsi ostacoli
sempre più ingombranti per la competitività capitalistica nazionale. Il peso
eccezionale del capitalismo di Stato, la consistenza della rendita, il
clientelismo parassitario, il carattere pletorico dell’amministrazione pubblica
entravano nel mirino della campagna borghese. L’anomalo tasso d’inflazione (sino
a soglie del 20%), la crisi di competitività industriale sul mercato
internazionale (nonostante i ripetuti crolli della lira), l’innalzamento abnorme
del saggio di sconto (alzato dall’8% al 12% nel solo 1974) apparivano sempre più
a vasti settori di grande capitale come il prezzo insostenibile delle “anomalie
strutturali”. Era uno degli aspetti del cosiddetto “caso italiano”.
Ma,
soprattutto, in quel contesto, si rivelavano sempre più onerose per il capitale
le conquiste strappate dall’ascesa operaia. Le concessioni considerevoli che la
borghesia aveva fatto alla pressione di massa sino alla metà degli anni settanta
(dallo Statuto dei lavoratori al punto unico di scala mobile) avevano avuto come
fine quello di disinnescare il rischio di una precipitazione rivoluzionaria in
Italia: le riforme furono strappate non “dal Pci” (come a lungo si disse) ma
dalla minaccia di un conflitto sociale ingovernabile che proprio il Pci si era
prodigato ad evitare. Tuttavia sullo sfondo della nuova crisi economica il peso
strutturale di quelle concessioni divenne progressivamente insostenibile per il
capitalismo italiano. La crescita dei livelli salariali, la forza operaia in
fabbrica, la rigidità del posto di lavoro a partire dalle grandi aziende,
ponevano alla borghesia l’esigenza di una controffensiva. Arretrare non si
poteva più. E si doveva innestare, nelle condizioni date, una decisa inversione
di marcia.
L’interrogativo era: con quale
strategia politica? Una linea di scontro frontale col movimento operaio era –
dentro i rapporti di forza dati – improponibile. Dal punto di vista sociale
avrebbe significato un’avventura, capace di favorire un ulteriore
radicalizzaione dello scontro e quindi di trascinare nuove obbligate
concessioni. Non di meno dal punto di vista politico: l’avanzata del Pci,
erodendo la base di consenso del Psi e influenzando settori popolari cattolici
si accompagnava ad una crisi sempre più netta del centrosinistra che aveva da
tempo esaurito ogni forza propulsiva; e chiedere a quel centrosinistra e alla
stessa DC una linea di scontro col Pci significava votarlo alla disfatta.
Peraltro il tentativo di svolta a destra intrapreso nel 1972 col varo del
governo DC-Pli (Andreotti-Malagodi) era durato lo spazio di un mattino. A
maggior ragione suggestioni reazionarie e golpiste – che pur aleggiarono più
volte in settori dell’apparato statale, a misura della gravità della crisi, e
che avevano alimentato la cosiddetta strategia della tensione – non solo non
ebbero mai alcuna credibilità politica nei circoli decisivi del capitale
finanziario: ma apparvero ai loro occhi come corresponsabili del processo di
radicalizzazione politica a sinistra delle classi subalterne.
Vi era
dunque un solo modo per la borghesia di uscire dall’impasse e riprendere in mano
la situazione: aprire ad una progressiva integrazione e corresposabilizzazione
del Pci nell’ambito degli equilibri di governo.
La borghesia italiana apre al Pci
Contrariamente a un diffuso luogo
comune, il compromesso storico, nei suoi termini reali, non fu solo una proposta
del Pci alla DC, ma anche una proposta della borghesia italiana al Pci. Anzi, la
forza della proposta berlingueriana stava esattamente nella sua rispondenza con
la speculare apertura borghese.
Berlinguer coniò la sua proposta
alla fine del 1973 con parole significative “la DC ha dovuto abbandonare la
linea e la prospettiva del centrodestra. Essa avverte che può essere gravido di
avventure fatali, per tutti o per se stessa, giocare la carta della
contrapposizione e dello scontro. Ma non è giunta ancora ad intraprendere con
coerenza una strada opposta…” (“Rinascita” del 20 ottobre 1973). La strada
appunto del compromesso di governo con lo stalinismo.
Con un
perfetto parallelismo, all’inizio del 1974, Guido Carli prestigioso governatore
della Banca d’Italia, in un celebre articolo sull’”Espresso” indicava per la
prima volta l’opportunità di coinvolgere il Pci nell’area di governo, come
possibile fattore di “stabilità sociale e politica” e di “risposta al
disordine sociale”. La grande borghesia italiana aveva scelto. La
Confindustria nel 1975 aprì alla Cgil di Lama e al Pci con la concessione del
punto unico di contingenza: l’ultima riforma concessa al movimento operaio
chiedeva come contropartita non solo la fine delle rivendicazioni salariali ma
l’avvio del coinvolgimento politico del Pci nel processo di stabilizzazione
sociale. Non a caso fu Gianni Agnelli – come presidente di Confindustria –
l’artefice diretto del messaggio. A sua volta l’apertura borghese dislocò in
termini nuovi l’intera dialettica politica nazionale. Il Pri di Ugo la Malfa,
portavoce chimicamente puro della linea confindustriale, divenne il principale
propositore del coinvolgimento governativo del Pci. Dentro tutti i partiti
borghesi si rafforzò giorno dopo giorno la linea aperturista verso lo stalinismo
(persino nel Pli).
Ma fu
soprattutto nella DC, architrave della rappresentanza politica borghese, che
maturarono rapidamente, pur in un quadro contraddittorio, dinamiche nuove. Aldo
Moro e Giulio Andreotti, da versanti diversi, compresero meglio e prima di
altri dirigenti democristiani che un equilibrio politico era finito: e che non
vi era altra strada per tentare di uscire dalla drammatica crisi del capitalismo
italiano (e in parte della stessa DC) che aprire al compromesso storico.
La partita di scambio del
compromesso
Dopo le
lezioni politiche del 20 giugno 1976 – che avevano registrato il miglior
risultato elettorale del Pci di tutto il dopoguerra – il compromesso storico
iniziò a conoscere una concreta traduzione politica. La sua linea di attuazione
tra il 1976 e il 1978 fu progressiva e graduale. Nel 1976 nasceva il governo
Andreotti come “governo delle astensioni”: il Pci non aveva formalmente una
integrazione al governo e neppure in maggioranza, ma per la prima volta dopo
trent’anni rimuoveva la propria opposizione, dichiarando la “non sfiducia”. Nel
1977 nasceva un secondo governo Andreotti, chiamato il governo delle
“convergenze programmatiche”: il Pci non era formalmente incluso in
maggioranza ma aveva discusso ufficialmente per la prima volta il programma di
governo, nei fatti corresponsabilizzandosi apertamente. Il 16 marzo 1978 un
terzo governo Andreotti teneva a battesimo l’ingresso organico del Pci nella
maggioranza politica di governo.
La
gradualità del processo rispondeva solo in parte a preoccupazioni elettorali
della DC sul versante del tradizionale elettorato anticomunista. Rispondeva
invece essenzialmente alla natura di fondo dello scambio pattuito, che era poi
la vera natura del compromesso storico. La burocrazia staliniana aveva usato la
spinta di massa del movimento operaio per aprirsi la strada del governo con la
borghesia. La borghesia, e il suo principale partito,usarono l’apertura al Pci
come leva della normalizzazione sociale contro le conquiste del 1969-75. Questo
compromesso doveva essere vigilato e alimentato in un gioco di pressioni,
garanzie, contropartite reciproche e richiedeva dunque gradualità. Per tre anni
l’apparato del Pci rivendicò l’accelerazione del proprio ingresso diretto
nell’esecutivo, condizionando le proprie disponibilità antioperaie
all’avanzamento degli equilibri politici. Per tre anni i vertici della DC
condizionarono l’avanzamento progressivo di quegli equilibri all’impegno
antioperaio del Pci, alle prove della sua affidabilità sul versante delle
politiche borghesi.
La
storiografia del Pci degli anni ottanta tese spesso a distinguere il compromesso
storico proposto da Berlinguer dall’unità nazionale del 1976-78: presentando
quest’ultima come una traduzione imperfetta da parte del partito dell’“alto
disegno” di trasformazione – “purtroppo incompreso dalla base” – che
Berlinguer aveva concepito. Era il tentativo di salvare il compromesso storico
(e Berlinguer) dal bilancio del suo fallimento.
In
verità, l’unità nazionale fu esattamente il compromesso storico reale, liberato
dall’alone propagandistico e illusionista che dal 1973 aveva accompagnato la
proposta.
Austerità e sacrifici
“Austerità e sacrifici”: questi due
termini più di altri incardinarono l’intera esperienza dell’unità nazionale. Per
lungo tempo, da più parti, si è rappresentata la parola d’ordine
berlingueriana dell’austerità come una critica al “modello capitalista”, una
denuncia della sua irrazionalità, una proposta di società più libera e più
umana: addirittura un “socialismo” per il nostro tempo.
Questa
rappresentazione lirica capovolge precisamente la realtà. L’austerità fu nei
fatti la cornice ideologica della nuova politica antioperaia del Pci in
subordine alle esigenze del capitalismo italiano. Questa politica non solo
cancellava definitivamente ogni traccia residuale del vecchio propagandismo
togliattiano di opposizione degli anni cinquanta e sessanta (“riforme di
struttura”, “nazionalizzazione di alcuni monopoli”, ecc.); non solo cancellava
ogni eredità del sindacalismo tradunionista, tardivo e strumentale, del 1969-70;
ma metteva apertamente in discussione conquiste, istituti, rapporti di forza
realizzati dalla classe operaia dal 1969 al 1976, lungo una linea di
progressione inequivoca.
Nell’ottobre del 1976, appena
varcata la linea dell’astensione, il Pci difese le misure del governo Andreotti
dagli scioperi spontanei dei lavoratori (indirizzati in particolare contro il
rincaro dei prezzi e l’aumento della benzina), lanciando la nuova campagna del
rigore contro la crisi: la classe operaia doveva iniziare a farsi carico delle
difficoltà nazionali, moderare le proprie rivendicazioni, mostrare “spirito
responsabile e costruttivo” verso il padronato. In poche parole doveva
accettare un ridimensionamento della propria condizione.
Nel
luglio del 1977, in corrispondenza col varo della “convergenza programmatica”
tra DC e Pci, la “proposta di progetto a medio termine” varato dal comitato
centrale del partito dava alla nuova linea del rigore una confezione ideologica
impegnativa. Il testo dichiarava come proprio proposito “il concreto
collegamento tra l’impegno, i sacrifici, il rigore, che si venivano sollecitando
come condizione indispensabile per il superamento della crisi e la prospettiva
di una trasformazione della società.” (dall’introduzione di Giorgio
Napoletano). Ma l’intero testo – che si apre con l’elogio dell’austerità –
assume come proprio terreno di riferimento il programma a “medio termine” della
borghesia italiana. Nei “successivi tre-cinque anni” il progetto a medio
termine del Pci rivendicava “lo spostamento di risorse dai consumi agli
investimenti” (leggi: contrazioni salariali in cambio di maggiori profitti
alle imprese); “una vera e propria guerra allo spreco non solo nella sfera
dei consumi privati ma nella sfera della spesa pubblica” (leggi:
contenimento delle spese sociali in nome di maggiori risorse per l’accumulazione
capitalistica); “la lotta all’inflazione come condizione di recupero della
competitività nazionale e il rifiuto dell’assistenzialismo e dell’occupazione
improduttiva” (leggi: salario e posto di lavoro coma variabile
dipendente del capitale). In definitiva la “trasformazione della società”
progettata dal Pci voleva assicurare alla borghesia la piena restaurazione del
controllo capitalistico.
Ma fu
nel 1978 che il nuovo corso economico sociale del partito conobbe la traduzione
più “provocatoria”, con pesanti ricadute sulla lotta di classe. In perfetto
parallelismo con l’ingresso del Pci nella maggioranza politica di governo la
burocrazia della Cgil sotto la guida di Luciano Lama inaugurò all’Eur una svolta
profonda di indirizzo del principale sindacato italiano. Questa svolta non stava
nella trasformazione di un “sindacato di classe anticapitalista” in un
sindacato collaborazionista, come spesso si è affermato in ambienti centristi di
estrema sinistra. Stava nel passaggio della burocrazia riformista della Cgil da
una funzione tradunionistica di scavalcamento e contenimento della spinta di
massa, connessa alla collocazione di opposizione del Pci, ad una funzione di
svendita delle conquiste operaie, connessa alla nuova collocazione di governo
dello stalinismo. Il significato di questa svolta la diede lo stesso Lama in una
storica intervista al giornale “la Repubblica” (24 gennaio 1978). Lama criticò
apertamente “gli eccessi e gli errori sindacali” del 1969-76. Condannò
definitivamente la concezione rivendicativa del salario come variabile
indipendente annunciando l’“austerità salariale”. Aprì inoltre una campagna
sindacale per la crescita della produttività del lavoro affermando che l’orario
reale di lavoro medio in Italia era molto più basso che in altri paesi
capitalistici concorrenti e che la Cgil sarebbe stata disponibile a negoziare il
suo allungamento. Infine fece propria la tesi padronale dell’“esuberanza” di
mano d’opera nelle fabbriche riconoscendo la legittimità della sua riduzione.
“La Cgil è pronta ad impegnarsi per sacrifici sociali non formali, ma
sostanziali” dichiarò Lama. Il messaggio era inequivoco: la
burocrazia Cgil, per conto dello stalinismo italiano provava a presentarsi alla
borghesia come garante delle rinunce operaie e della normalizzazione nelle
fabbriche. In buona sostanza della chiusura della stagione del 1968-69.
La classe operaia “si fa Stato”:
il Pci baluardo dell’ordine
Al
tempo stesso l’accesso all’area di governo si combinava con un nuovo corso del
partito sul terreno più strettamente politico.
La
classe operaia non era solo chiamata a identificarsi negli interessi nazionali
del capitalismo in crisi. Era chiamata a identificarsi nello Stato borghese, a
“farsi Stato”. La domanda di potere che in qualche modo era emersa, con molte
contraddizioni, nella dinamica di massa del 1969-76 e nella coscienza
dell’avanguardia proletaria veniva in qualche modo capovolta e sublimata nella
partecipazione subalterna al potere avversario. La classe operaia che “si fa
Stato” doveva perciò spesso dissolvere il proprio interesse di classe
nell’interesse generale dell’ordine borghese. Doveva assumere essa stessa in
prima persona la difesa dell’ordine avversario. Migliaia di funzionari e
attivisti fedeli di partito furono arruolati nel nuovo compito di tutori
dell’ordine e del governo di unità nazionale: nelle fabbriche, nei quartieri,
nelle manifestazioni.
La
campagna contro l’estrema sinistra e l’opposizione di classe conobbe in quegli
anni un deciso salto di qualità, con un ruolo diretto dell’apparato staliniano.
L’esplosione del terrorismo delle Brigate rosse e di Prima linea, alimentato
dalla disgregazione della vecchia estrema sinistra, non solo contribuì a
distorcere e compromettere l’idea stessa di rivoluzione nella percezione di
vasti settori di massa, ma incoraggiò la repressione dello Stato contro
l’avanguardia di classe. Settori di estrema sinistra che nulla avevano a che
vedere col terrorismo furono duramente colpiti nell’isteria generata dalla nuova
legislazione d’emergenza sospinta a coperta dal Pci. E, al di là delle dirette
misure repressive, ampi strati di lavoratori d’avanguardia ostili all’unità
nazionale subirono un effetto obiettivo di intimidazione, una restrizione reale
degli spazi di opposizione.
La
repressione non fu generale ma selettiva. Non colpì direttamente le masse
organizzate e sindacalizzate, di cui il governo – tramite il Pci – cercava anzi,
in qualche modo, il sostegno: ma tutti quei settori d’avanguardia delle classi
subalterne che, al di là delle loro specifiche posizioni, apparivano fuori e
contro l’unità nazionale. La verità è che l’apparato staliniano del Pci voleva
valorizzarsi agli occhi della borghesia non solo come l’insostituibile garante
dei sacrifici sociali, ma anche come l’insostituibile baluardo dell’ordine e
della stabilità, contro ogni resistenza e insorgenza ribellistica.
Eurocomunismo e stalinismo
A
questa politica interna corrispose, significativamente, la politica estera del
compromesso storico. Era questo un terreno delicatissimo per le speranze di
ingresso organico del Pci nell’esecutivo. Il “fattore K” continuava ad
ostacolare in modo decisivo questo sbocco. Nell’impossibilità di rimuoverlo,
occorreva nuovamente ridimensionarlo e diluirlo. Il lancio propagandistico nel
1976, su spinta del Pci, del cosiddetto “eurocomunismo” (Pci, Pcf, Pce) serviva
a questo scopo.
Sulla
natura dell’eurocomunismo sono prosperate le più diverse interpretazioni e
letture. Il gruppo dirigente del Pci si sforzò di presentarlo come una sorta di
“rifondazione democratica del comunismo europeo”. Settori di estrema sinistra
finirono con l’avallare, magari criticamente, questa rappresentazione
propagandistica. Ancora oggi, un compagno come Livio Maitan rappresenta
retrospettivamente l’eurocomunismo come espressione di una “contraddizione
dei partiti stalinizzati” tra il condizionamento “decisivo” dei gruppi
dirigenti dell’Urss e l’impossibilità di “crescere e acquistare un’influenza
duratura senza rispondere ai bisogni delle masse operaie e popolari delle
società capitalistiche” (vedi Livio Maitan in La strada percorsa.
La
realtà fu di segno opposto. L’eurocomunismo nella sua breve stagione (1976-79)
coincise esattamente con il massimo impegno dell’apparato burocratico del Pci
nell’intimidazione delle lotte e nella contrapposizione “ai bisogni delle masse
operaie e popolari”. E questo per una ragione molto semplice. Esso non
rifletteva affatto una pressione “democratica e sociale” della base del partito
o del movimento operaio. Rifletteva al contrario l’enorme pressione della
borghesia italiana e, indirettamente, dei circoli dominanti dell’imperialismo
Usa per una netta recisione dei rapporti del Pci con Mosca quale condizione di
ogni sua piena legittimazione di governo.
Con la
conferenza eurocomunista di Madrid del 1976, a fianco di Pcf e Pce, Enrico
Berlinguer volle dunque inviare al capitalismo italiano un segnale preciso: il
Pci è disposto a fare un nuovo passo avanti sul terreno dell’autonomizzazione
dalla burocrazia del Cremino e della propria integrazione nell’occidente
capitalistico. Il 15 giugno del 1976, a pochi giorni dal voto nelle elezioni
politiche Berlinguer rilasciava sul “Corriere della sera” una dichiarazione
clamorosa: “Mi sento più sicuro sotto l’ombrello della Nato che
altrove”. Era il definitivo seppellimento della tradizione antiatlantica del
partito e una dichiarazione di fedeltà piena al quadro capitalistico e
imperialistico.
In
realtà Berlinguer gettava il cuore oltre l’ostacolo: i legami con l’Urss non
potevano essere recisi entro le condizioni storiche del bipolarismo
internazionale e infatti si protrarranno ancora per oltre dieci anni sino alla
soglia dello scioglimento del partito. Ma certo lo slancio occidentale
dell’apparato del Pci era quanto mai significativo. Al punto da incontrare, non
a caso, il cauto interessamento dell’imperialismo Usa (come ormai risulta
pubblicamente dai materiali d’archivio della Cia) e la speculare resistenza
della burocrazia di Mosca. Se il primo compromesso storico aveva avuto il
consenso e il mandato del Cremino, il compromesso storico di Berlinguer,
trent’anni dopo, trovò Mosca diffidente e ostile. Era uno dei metri di misura
del progressivo approfondimento delle contraddizioni interne dello stalinismo
internazionale e del loro carattere potenzialmente esplosivo.
Contraddizioni e declino
dell’unità nazionale
Ma
l’ostentata fedeltà di Berlinguer alla borghesia italiana, al suo Stato, al suo
campo internazionale non fu sufficiente a garantire il successo al disegno
politico del compromesso storico.
Per
alcuni aspetti concorse paradossalmente alla sua crisi: e infatti la vicenda del
compromesso storico reale tra il 1976 e il 1978 è in larga parte la storia del
progressivo esaurimento delle sue basi d’appoggio.
In
primo luogo, sul piano sociale, la politica dell’Eur fece fatica ad affermarsi,
trovò significative resistenze e produsse numerose contraddizioni a livelli
diversi.
Settori
importanti dello stesso apparato sindacale, soprattutto nelle categorie
dell’industria, si trovarono nell’impossibilità di applicare in modo coerente la
nuova linea di Luciano Lama: sia sul terreno dell’impostazione delle piattaforme
contrattuali, sia sul terreno della gestione delle lotte.
Lo
sciopero nazionale e la grande manifestazione della Flm nel dicembre 1977 –
nettamente critica verso il governo Andreotti, sostenuto dal Pci – rivelava bene
la contraddizione interna della Cgil e del partito. Berlinguer “usò” quella
manifestazione come leva di pressione sulla DC per chiedere ancora una volta il
proprio ingresso diretto nel governo. Ma nel sentimento operaio quella
manifestazione rifletteva disorientamento e distacco dall’unità nazionale. Non a
caso Luciano Lama riconoscerà dieci anni dopo che la resistenza operaia nelle
grandi fabbriche alla politica dell’Eur aveva costituito “un grosso
problema” per lo stesso Pci (vedi L. Lama, L’intervista sul
sindacato, 1987).
La
politica del compromesso storico non riportò certo risultati migliori nel
rapporto con la gioventù.
Nel
1977 un consistente movimento giovanile a base studentesca e semiproletaria si
sviluppò in collisione frontale col quadro politico di unità nazionale, le sue
politiche sociali, i suoi risvolti repressivi, misurando un processo di rottura
profonda tra l’apparato del Pci e la sensibilità di una parte rilevante della
gioventù italiana. La cacciata di Lama dall’università di Roma (al di là di ogni
specifica considerazione sull’avvenimento in sé) così come la grande
manifestazione di massa contro la repressione a Bologna nel settembre del 1977
registrarono questo clima generale e contribuirono ad amplificarlo.
Infine,
in questo contesto, si moltiplicarono nella base del Pci ed anche in settori del
suo quadro intermedio, scossi dal nuovo clima, segni di disorientamento e
incomprensione verso il nuovo corso governista del partito.
In
secondo luogo i programmi sociali di “austerità e sacrifici” al di là
dell’annuncio, registrarono risultati contraddittori e comunque ben inferiori
alle attese della borghesia italiana. Una prima manomissione del meccanismo di
contingenza con lo scorporo di alcune voci del paniere e la sterilizzazione del
calcolo di scala mobile sulle liquidazioni furono materialmente il principale
trofeo che il Pci poté esibire agli occhi di Confindustria: era un colpo reale
ai lavoratori, ma del tutto insufficiente agli occhi di un padronato gravato
dalla crisi. Peraltro la gestione consociativa DC-Pci sul terreno
dell’occupazione dello Stato, delle nomine negli enti pubblici, della
definizione quotidiana dell’equilibrio di compromesso su ogni singola scelta (a
livello di parlamento, di amministrazione pubblica, di giunte locali) sembrò
ingigantire nella percezione borghese quei fenomeni di dispendioso parassitismo
burocratico e di “ingerenza partitica” che da tempo la classe dominante aveva
denunciato e di cui chiedeva il superamento.
I
circoli del capitale finanziario che avevano investito realmente sul compromesso
storico iniziarono dunque a manifestare inquietudine e delusione.
La demoralizzazione delle
masse
Ma se
l’unità nazionale deludeva le aspettative della borghesia, rappresentava un
colpo mortale per il movimento operaio e la dinamica della lotta di classe.
E’
vero, il grosso delle conquiste operaie, nell’immediato, resse alla svolta.
Nell’immediato il padronato non sfondò sul terreno materiale dei rapporti di
forza. Ma il morale delle grandi masse, quello sì, conobbe una rapida e drastica
inversione di segno. Milioni di lavoratori e lavoratrici, giovani e donne che
avevano intrapreso dal 1969 una grande ascesa sociale segnata da una domanda
centrale di svolta vedevano “i propri” dirigenti predicare la rinuncia alle
conquiste strappate e la fine della mobilitazione sociale. Un ampio settore di
base del Pci che aveva a lungo lottato per l’alternativa alla DC vedeva i
vertici del proprio partito teorizzare e praticare l’abbraccio con l’avversario
politico di sempre; e sentiva crescere attorno al “proprio” partito un clima di
distacco, estraneità, contestazione diffusa lungo un processo di segno opposto a
quello dei primi anni settanta.
Più di
ogni arretramento materiale fu questo il fattore decisivo di demoralizzazione e
ripiegamento. Fu questo il punto di svolta che segnò l’inizio della lunga pagina
del riflusso operaio: un riflusso dei livelli di combattività e mobilitazione
che da lì a qualche anno avrebbe consentito al padronato di passare direttamente
alla rivincita sociale e alla distruzione reale delle conquiste sociali del
1968-69. Da questo punto di vista il piano inclinato delle sconfitte sociali
degli anni ottanta ha la sua radice, senza alcun dubbio, nella svolta del
compromesso storico alla metà degli anni settanta.
Paralisi e crollo del compromesso
storico
L’unità
nazionale si trovò presto arenata sullo stesso terreno direttamente politico.
Sul piano internazionale, l’amministrazione americana, pur interessata
all’aperturismo occidentale di Berlinguer, consigliò alla DC una cautela
obiettivamente paralizzante. Sul piano interno il compromesso consociativo
DC-Pci marginalizzava i partiti borghesi minori producendo un insofferenza
crescente. Ma soprattutto determinava un contraccolpo profondo nel partito
socialista. Col 1976 l’avvento di Craxi alla guida del Psi poneva termine
progressivamente alla lunga stagione frontista Pci-Psi e inaugurava un corso
politico segnato da un autonomismo marcato del Partito socialista.
L’autonomizzazione del Psi e lo
sviluppo da parte di Craxi di un incursione spregiudicata e sistematica su tutti
i punti di difficoltà dello stalinismo italiano (sul rapporto con Mosca, sul
rapporto col sindacato, persino sul rapporto con l’estrema sinistra e sulla
lotta al terrorismo) costituì da subito un fattore di profondo indebolimento del
peso politico del Pci nei confronti della DC e della borghesia. E parallelamente
incoraggiò nella DC e negli altri piccoli partiti borghesi, tutti gli elementi
di resistenza all’avanzata politica della burocrazia del Pci.
Curiosamente, l’ingresso formale del
Pci nella maggioranza politica di governo – ingresso sospinto dal rapimento di
Aldo Moro e dal clima emergenziale che né scaturì – coincise con un
logoramento già avanzato di tutti i fattori che avevano sospinto l’unità
nazionale. Il massimo punto di avanzamento del Pci sul terreno degli equilibri
politici coincise così con la massima accelerazione del declino e della crisi
del compromesso storico. E l’anno di sostanziale paralisi politica che ne seguì
vide non a caso il crollo di quella esperienza..
Alla
vigilia delle elezioni politiche del 1979, dopo il mancato accoglimento
dell’ennesima rivendicazione di ingresso diretto al governo, Enrico Berlinguer
sanciva pubblicamente l’uscita del Pci dalla maggioranza, con l’intento in
realtà attraverso questo atto di drammatizzazione di rilanciare in prospettiva
con più forza la propria candidatura a governare.
Ma
l’insieme della situazione politica aveva ormai un’altra direzione di marcia.
Dopo tre anni di unità nazionale il Pci era uscito pesantemente penalizzato
dalla prova delle elezioni politiche con la perdita del 4% dei voti. Il nuovo
Psi di Craxi iniziava lentamente una rimonta che avrebbe consolidato il nuovo
corso autonomista ai danni del Pci. Nella DC la crisi della cosiddetta sinistra
morotea (drammaticamente accentuata dalla scomparsa di Moro) favorì in poco
tempo l’emergere di una nuova leadership (Forlani) che puntava apertamente sul
rapporto privilegiato con Craxi per isolare e ridimensionare il Pci. Ma
soprattutto l’inizio degli arretramenti della classe operaia e la crisi del
blocco sociale che si era raccolto attorno ad essa nella precedente fase di
ascesa, privò la burocrazia stalinista della sua principale leva di pressione
sulla borghesia italiana.
Come
spesso accade nella storia, il riformismo è la vittima fisiologica della sua
stessa politica fallimentare.
Un bilancio di fondo, una lezione
per il futuro
L’esperienza reale del compromesso
storico smentisce e capovolge, su ogni piano, tutta l’impostazione ideologica
della proposta del compromesso storico del 1973.
L’incontro con la DC non è stato
ricercato – come affermava Berlinguer – in virtù del suo cosiddetto carattere
“popolare” e “nonostante” i suoi rapporti “con i gruppi dominanti della
borghesia”: all’opposto è stato ricercato e realizzato proprio per il fatto che
la DC era il partito centrale, storicamente dato, della borghesia italiana;
l’unico partito abilitato pertanto a legittimare il Pci come forza di governo di
fronte alle classi dominanti, sul piano interno e internazionale.
Così
l’unità nazionale non è stata l’alleanza del Pci (fosse pure infruttuosa) con la
masse popolari cattoliche, quale leva del condizionamento “a sinistra” della DC:
è stata l’alleanza della burocrazia del Pci con la rappresentanza politica della
borghesia contro le masse comuniste, socialiste, cattoliche.
Fu una
disfatta per il Pci. Ma soprattutto una disfatta per il movimento operaio che
sarebbe pesata decenni. Perciò stesso fu un successo politico della borghesia
italiana che, grazie alla ciambella dell’unità nazionale, riuscì a salvarsi
dall’acuta crisi sociale e politica apertasi con il 1969, a dispiegare la
rivincita degli anni ottanta, a porre le premesse della caduta a destra della
prima repubblica negli anni novanta.
A
trent’anni di distanza, Piero Fassino e Massimo D’Alema, grazie al crollo dello
stalinismo internazionale, hanno potuto coronare sulle ceneri del vecchio Pci il
sogno di governo, rimasto incompiuto, della sua burocrazia. Non debbono più
mendicare un posto nel governo borghese quali controllori del movimento operaio.
Possono aspirare direttamente alla rappresentanza politica centrale della
borghesia, alla costruzione della DC della seconda repubblica: eventualmente
fondendosi in unico partito con forze eredi della DC e del craxismo e al tempo
stesso proponendo, dal versante borghese, un ... nuovo compromesso alle forze
eredi del movimento operaio (sinistra dei DS, Pdci, Prc, Cgil)
Sta oggi al
movimento operaio respingere un nuovo compromesso storico con il partito
borghese ulivista in gestazione, difendere la propria autonomia, costruire la
propria prospettiva anticapitalistica.
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